COVID 19 O COVID 2020?

Non tanto perché ho avuto a che fare con questa “bestia” ormai famosissima, ma anche per quella specifica terapia che è volta a mandarmi copioso sangue al cervello, mi lancio in alcuni considerazioni, volutamente provocatorie.

La domanda posta nel titolo non è messa lì per definire correttamente il nome della “bestia” cattiva e tantomeno vuole entrare nella questione medico-scientifica, se il virus abbia avuto una o più mutazioni.

La domanda ha tuttavia, per me una risposta: I COVID CIRCOLANTI SONO ALMENO DUE.

ArT in PiLls: è vero quella di Magritte non è un pipa! - Cultora, Cultora
Renè Magritte

COVID 2020 COME DISPOSITIVO ALL’INTERNO DI CAMPI ORAGANIZZATIVI[1]

Il primo (qui di seguito COVID 19) è quello che ha colpito, leggermente me, alcuni miei cari, qualche milionata di poveri cristi (una parte di loro se la sta passando proprio male e, purtroppo molti muoiono o sono già defunti), qualche milionata di sanitari di vario genere e, volendo mettere nel mucchio anche questi, qualche milionata di pazienti non-covid, che vede trascurata la propria infermità. Di questo covid non dico altro perché sono solo un suo punto di scalo, spero più breve possibile, ma non essendo uso maneggiare virus e malattie varie, passo oltre.

Il secondo covid, quello che si potrebbe chiamare COVID 2020, è per me meno sconosciuto. Esso non è un virus, né sul piano virologico e neanche su quello organicistico,[2] anche se la sua circolazione è quantomeno veloce e diffusiva quanto il precedente.

Ma se non è il virus cattivo che tremare il mondo fa, che cos’è? Per svelare il mistero, che arcano non è, parto con una esemplificazione che può illuminare facilmente l’oggetto. Quando nei giorni scorsi il mondo ha tremato perché Trump sarebbe stato contagiato dal COVID 19, non pochi, me compreso, hanno avuto il dubbio che l’astuto presidente americano potesse provare a presentarsi come uomo superiore, capace di risorgere più forte e sano che pria, usando il COVID, quello 2020 come nemico che i grandi se lo sanno bere a colazione. Nelle elezioni americane e non solo in quelle, alcuni contendenti, Biden in testa, hanno ampiamente usato il COVID 2020 per mostrare e sbandierare la propria scelta di campo filo-scientifica. Anche da noi questo essere impalpabile è presente nelle argomentazioni che innervano il campo politico. Da una parte vi è chi ne presenta il carattere minaccioso, ma dominabile solalmente col rispetto delle indicazioni degli esperti di turno, dall’altra ora con negazioni, ora con esaltazioni, ora con azioni temerarie, ci si propone come soggetti capaci di una maggiore dimestichezza con quello che io chiamo: “dispositivo di sapere/potere COVID 2020” (d’ora in poi solo COVID 2020). Macroscopiche appaiono, proprio in questi giorni le controversie tra esponenti del governo e di potentati locali, sia sulle azioni da intraprendere, sia sull’interpretazione dei dati quotidianamente sfornati dalle diverse agenzie preposte. A riprova dell’uso politico organizzativo (in senso lato) di questo dispositivo si può citare l’odierna diatriba sul numero dei parametri da impiegare per la definizione delle condizioni delle diverse regioni. https://www.ilmattino.it/primopiano/politica/zona_rossa_arancione_regole_covid_dpcm_regioni_governo_news_oggi_17_novembre_2020-5591356.html

Esso, infatti, a differenza di quello 19, è assai più malleabile ed è impiegato in molti campi, i più disparati, per azioni organizzative più o meno profittevoli. Nel campo mediatico, il COVID 2020 garantisce semplificazioni nella scelta dell’argomento da trattare e, in quello televisivo, un numero di ascolti sufficientemente elevato per giustificare la propria presenza più o meno quotidiana. Non solo, ma lì come nel comparto cartaceo o virtuale, il dispositivo viene usato per il riposizionamento del profilo editoriale della testata giornalistica e degli stessi giornalisti. Esemplificativo di ciò è stato lo scontro Padellaro – De Angelis del 29 ottobre scorso, durante la trasmissione “Piazza Pulita” di Corrado Formigli. https://www.la7.it/piazzapulita/video/duro-scontro-tra-padellaro-e-de-angelis-come-ti-permetti-di-dire-una-cosa-del-genere-30-10-2020-347526

In esso il COVID 2020 è stato usato, attraverso acrobazie discorsive, in rapporto dialettico con l’altra parola magica: “la politica”, per evidenziare la competizione mediatica tra due testate giornalistiche concorrenti e tra due figure di giornalisti che non mancano di garantire la loro presenza nei circuiti televisivi.

A ben guardare anche nel campo medico – scientifico è facile riscontrare disinvolti impieghi del COVID 2020. Nel momento in cui, rapporti di ricerca, più o meno affidabili sul COVID 19, entrano nel dibattito e magari nello scontro tra luminari della virologia, appare molto difficile per i vari Virus-Star evitare di ibridare risultati ineccepibili, ma anche verificabili e, perché no, falsificabili, con affermazioni poste all’interno della comunicazione di massa. Anche qui è facile trovare un esempio chiarificante. La famosa esternazione pubblica del Professor Alberto Zangrillo relativa alla presunta morte clinica del COVID 19. https://www.youtube.com/watch?v=L_KhriEBYus

Quello che io padroneggio modestamente, ma che evidentemente l’esimio professore mostra di non conoscere a fondo, è lo strumento che gli ha permesso alcune sue esternazioni, sia pure corredate da correttissimi rapporti di ricerca, e che le ha trasformate in comunicazioni di massa rivolte ad un pubblico, perlopiù incompetente. Il suo discorso è totalmente distante dalla comunicazione ordinaria, con cui tratta coi pazienti, con i colleghi e con tutti quelli che partecipano alla sua quotidiana pratica di medico. Il suo discorso cambia addirittura l’oggetto di cui egli parla: il COVID 19 esce di scena ed appare sbrilluccicante il COVID 2020. Qui non abbiamo alcun virus più o meno mortale, qui abbiamo un soggetto completamente diverso. Esso offre occasioni a chi la spara più grossa per mettersi in mostra, per mostrare arredi o corredi inneggianti la propria virtù scientifica, gli fa beneficiare di riflettori altrimenti diversamente dedicati e, soprattutto, consente allo scienziato di turno, senza alcuna remora, di sostenere la coalizione nel proprio campo di appartenenza. Quest’ultimo aspetto appare, proprio in questi giorni evidentissimo, proprio grazie a quanto indicato nell’articolo. https://quifinanza.it/editoriali/video/san-raffale-burioni-mail-covid/432141/

In esso lo scontro tra scienziati medici appare del tutto evidente e ben riassunto in una mail del gruppo San Donato, nel quale vengono definiti i contorni della situazione sanitaria lombarda in opposizione a quella proposta dal Virus-Star Roberto Burioni (Professore Ordinario di Microbiologia e Virologia, Dottore di Ricerca in Scienze Microbiologiche, Specialista in Immunologia Clinica ed Allergologia, nonché docente proprio all’Università Vita-Salute San Raffaele).

Va da se che io presentando questi esempi, non penso proprio di fare una scelta di campo medico, non ho nessuna competenza in materia. Ribadisco però che, a mio avviso, qualunque virologo o medico di varia natura, quando straordinariamente, ossia al di fuori della sua attività quotidiana di professionista del settore, sforna esternazioni pubbliche sul virus, in contesti non riconducibili ai protocolli della discussione scientifica o al più, a documenti divulgativi, egli parli esclusivamente del COVID 2020. Il significato della sua esternazione non è infatti dato tanto dal contenuto della stessa, ma dal contesto comunicativo in cui questo avviene e soprattutto dall’azione organizzativa sottesa alla medesima. Affermare che il virus è morto o che è vivo o che si diffonde più o meno rapidamente, non si limita al semplice giudizio espresso nell’esternazione, ma posiziona il comunicatore all’interno di contese infra o extra organizzative del proprio campo organizzativo (V. in questo caso l’importante relazione tra il campo della medicina e quello dell’amministrazione statale, per non parlare di quello della politica). A questo riguardo l’esperienza svedese degli ultimi anni (V. l’interessante e specifico studio presentato da H. Hasselbladh, E. Bejerot) mostra come la relazione tra il campo medico, i cittadini di quel paese, nuovi attori con diverse e peculiari qualificazioni, il campo della politica e l’amministrazione statale, abbia visto nel tempo, una sensibile trasformazione, tanto da suggerire il perché della peculiare scelta adottata nei confronti della pandemia. Ma questo ci porta a far luce su un nuovo aspetto di questa trasmutazione.

COVID 2020 COME DISPOSITIVO DI GOVERNAMENTALITA’

Il luogo in cui l’emergere del COVID 2020 mi appare più interessante, è tuttavia, quello della cosiddetta governamentalità. Se esso sta giocando un ruolo di primo piano in controversie nei vari campi in cui è organizzata l’azione sociale, quello che svolge nelle pratiche governamentali[3] è sempre più un’azione da vero e proprio protagonista.

Esso, assumendo ora la faccia della minaccia epocale, ora quella più fredda di una gran messe di dati, ora ancora le fattezze del virologo o scienziato di turno, si pone come ago di una bilancia sui cui piatti compaiono altri due colleghi non meno ingombranti: la libertà e, quel suo nemico acerrimo del momento, che ha preso ovunque il nome di lockdown.

Foto 1

Si renderebbero ora necessarie approfondite argomentazioni sulla storia più o meno recente del liberalismo contemporaneo, ma il carattere di questo documento, valido come spunto di riflessione sul fenomeno COVID, mi consente solo un rapido sguardo di sfondo. 

Il problema della libertà, in un’ottica governativa e, che proprio in  questi giorni vede il suo nome assunto come slogan da sbattere in faccia contro chi propone chiusure di vario genere, è oggetto di controversia. Questa, negli ultimi quarant’anni, soprattutto a seguito dell’esplosione di politiche neo-liberiste che hanno avuto in Gran Bretagna e negli USA la massima espressione, si è manifestata con grande virulenza. A seguito di questo processo politico di smantellamento dello stato assistenziale, i rischi, che la cosiddetta libertà ha posto, oltre alla contraddizione connessa alla presenza della necessità di pratiche di governo, sono stati di varia natura. Da una parte l’affermazione di persone autonome, capaci di scelte individuali e di affermazioni di preferenze sempre più particolari, se ha consentito l’affiorare di nuovi mercati e, conseguentemente, di nuove sfere di business, dall’altro ha fatto emergere anche nuove pratiche e comportamenti border line, o addirittura estranei a tradizioni più o meno secolari. Questa condizione, unitamente allo sviluppo ed al rafforzamento delle imprese globali, sempre più capaci di imporre le proprie condizioni strategiche e soprattutto la loro crescente capacità di innovazione culturale (V. ad esempio, tutto quello che avviene nel campo dei nuovi media) pone dei rischi. In particolare rende possibile ridurre l’azione degli stati nazionali a semplici baluardi (fatti di muri ed azioni umanamente riprovevoli), contro la prorompente domanda di futuro, posta da popolazioni messe ai margini del benessere del mondo globalizzato.

Il COVID 19 e soprattutto il suo replicante 2020 si presentano come ghiotta occasione per far emergere quello che alcuni studiosi[4] chiamano e descrivono: il “liberalismo avanzato”.

Già con il neo-liberalismo tardo novecentesco, si è andati oltre il liberalismo classico e quindi oltre il governo dei singoli, attraverso la pressione sociale corroborata da azioni statali di governo, e si è giunti a forme di auto-governo nelle quali gli individui, così costituiti, attraverso la libertà, vengono portati ad autodeterminarsi nelle loro scelte, facendo leva su dettami morali espressi dal governo centrale e da istituzioni sociali consolidate. Con l’affermazione del mercato come luogo di esercizio della libertà di scelta del cittadino – consumatore, col declino di uno stato di diritto sia come regolatore, sia come stato assistenziale, il singolo si è trovato sempre più indipendente da politiche pubbliche e sempre più libero e meno condizionato da relazioni sociali, giuridicamente controllate (V. la crescita a dismisura di contratti  di lavoro di tipo individuale a scapito di quelli collettivi).

Con il liberalismo avanzato le pratiche governamentali, per far fronte ai pericoli indicati qui sopra, garantiscono la libertà di movimento, ma mettono in campo azioni di sorveglianza e regolazione, sia pure indirette, mediante tecniche di costruzione della cittadinanza e dell’agentività, che con brutta espressione io  traduco attoranza.[5]

La tecnologia di cittadinanza si riferisce a tutti quegli sforzi sistematici per instillare responsabilità, e capacità di autoregolamentazione dei comportamenti negli attori collettivi o individuali. Appelli rivolti all’individuo, per essere un lavoratore responsabile, (ecco qui comparire il quarto elemento: la responsabilità, costitutivo del sistema oggi vigente e riprodotto della fig.1), un consumatore consapevole, un cittadino attivo o un imprenditore innovativo, compaiono ovunque nella vita moderna, a cominciare dai talk show radio televisivi e dai programmi formulati da governi e organizzazioni internazionali. Nell’individuazione di alcuni aspetti di questi appelli a gruppi di target specifici e nella creazione di contesti favorevoli alla loro articolazione e realizzazione, emerge il fatto che gli stessi sia pure in misura indiretta, si trasformino in tecnologie di governo avanzato.

 Le tecnologie dell’agentività includono tutte le misure che cercano di favorire la capacità di esercitare il libero arbitrio, all’interno di una zona di libertà regolamentata e sono volte alla costituzioni di attori sociali responsabili e formalmente identificabili (ad esempio: il consumatore, il professionista, il pensionato, sul piano individiale; il gruppo politico, il sindacato, il club sportivo o i gruppi di whatsap, su quello collettivo), capaci di dar corpo ad azioni ben definite all’interno di costruzioni sociali pre-programmate. Il consumatore è libero di scegliere i propri beni di consumo, ma è invitato a farlo seguendo protocolli d’azione, sia pure innovativi, che garantiscano le indicazioni di autorità specifiche. I pazienti ed i soggetti destinatari di assistenza e previdenza pubblica, per fare esempi più prossimi al tema trattato, sono attesi e incoraggiati (o obbligati se necessario) a prendere parte a nuove pratiche, che si basano sulla loro presunta propensione ad applicare mezzi razionali per fini presentati come evidenti e concreti. Gli attori individuali e collettivi non sono costretti ad agire esattamente secondo un piano governativo preconcetto, ma sono invitati ad adeguarsi a nuovi criteri di rilevanza e razionalità. I nuovi principi e pratiche sono prodotti e articolati all’interno di un più ampio discorso di governance che privilegia le modalità di controllo mediate e indirette. In parziale opposizione con i regimi di governamentalità precedenti, che si erano prefissati di liberare il cittadino dall’intervento del governo (liberalismo orientato al mercato) o attutire i cittadini vulnerabili mediante sistemi di sicurezza sociale e servizi pubblici (assistenzialismo), il nuovo regime tenta di costituire vari attori caratterizzati da zone di libertà regolamentata. I singoli attori sono attesi fare le proprie scelte (i consumatori scelgono beni e servizi, nonché i propri medici o i fornitori di linee telefoniche), mentre gli attori collettivi (gruppi di esperti, società, agenzie) si propongono come partecipanti ad un gioco di libertà semi-regolata, in base al quale, a fronte di un loro ruolo strategico di costitutori di specifiche istituzioni sociali e delle corrispondenti logiche,[6] vedono il ruolo dello Stato ridursi sempre più alla fornitura di risorse, alla codifica, formalizzazione ed implementazione di regole e, se necessario, alla creazione di attori responsabili.

COVID 2020 COME DISPOSITIVO GOVERNAMENTALE

Non occorrono molti sforzi per rendersi conto che la questione del COVID 19 e della sua trasmutazione in COVID 2020 fornisce una ghiotta occasione per l’affermazione di queste forme avanzate di governamentalità. Il singolo cittadino si trova inserito all’interno di quel rete relazionale di sorveglianza[7] descritto poc’anzi, in cui le sollecitazioni per un comportamento responsabile (metti la mascherina, annulla le tue relazioni e contatti diretti, lavati le mani, e rimani il più possibile a casa) vedono da una parte la figura premiale della libertà (condizionata oggi e il più possibilmente piena, in un futuro più o meno remoto) e dall’altra, la punizione collettiva del cosiddetto lockdown (totale o come accade in questi ultimi tempi, parziale e limitato da scelte, fatte non del tutto arbitrariamente, dagli esperti di turno). È da rimarcare che in questo contesto di sorveglianza e punizione, il COVID 2020 assume in modo prorompente anche le sembianze del documento televisivo, della foto proposta sui nuovi media e della narrazione volta a rimarcare il comportamento irresponsabile altrui o delle manchevolezze organizzative dei servizi pubblici e privati, operanti in particolare nei grandi centri. A questo proposito la possibilità offerta dai nuovi media, di “postare” documenti confermanti comportamenti scorretti, non fa altro che contribuire alla costituzione del cosiddetto “cittadino responsabile”, che è al centro di tutta l’azione governamentale.

Anche il contagiato e quindi il paziente COVID si trova inserito in una rete sociale simile a quello appena descritto, ma la sua condizione gli fa assumere una posizione un po’ differente. Egli, non solo è una persona contagiata dal virus, è diventato per un certo periodo, un paziente covid. Costui, anche solamente asintomatico o lievemente portatore di disturbi, è tenuto responsabilmente a ritirarsi da ogni contatto personale, a coinvolgere i propri familiari (magari non contagiati) in un periodo di quarantena, a dover partecipare ad attività di “tracciamento”, anche se spesso inconcludenti, alla produzione, quindi di archivi di dubbia efficacia ed attendere la liberatoria certificazione di uscita dalla malattia, rappresentata dal famoso “tampone negativo”. Tutte queste attività, stante l’impossibilità da parte dello stato di controllarne puntualmente l’esecuzione, vedono necessariamente la partecipazione attiva e responsabile del paziente stesso.

Del paziente ospedalizzato non sono in grado di dire granché, se non che la sua esperienza è fortemente vincolata dalle risorse sanitarie disponibili, le quali, essendo legate al livello complessivo del contagio, offrono l’occasione per la riaffermazione della responsabilità del cittadino e quindi, come in un circolo vizioso nella sua sorveglianza ed eventualmente punizione.  

In conclusione, credo di aver mostrato in modo sufficientemente chiaro che, se il COVID 19, probabilmente in un futuro, si spera più vicino possibile, abbandonerà i nostri organi da lui preferiti e diventerà il ricordo di una pandemia assassina, ma fortunatamente lontana, di quello che io mi sono arrogato il diritto di chiamare COVID 2020, potremo registrare i suoi effetti anche in un futuro piuttosto remoto.

P.S. Piccola noterella sulla questione della libertà. Visto che da molto tempo mi sono autodefinito “libertario”, la parola ha per me, unitamente a quello di potere e di dominio, un valore assai importante, ma per trattarli un po’ più compiutamente, mi riservo di dedicare loro un documento apposito, in un futuro, spero il più prossimo possibile. Per il momento mi limito ad evidenziare che la libertà, più volte sopra citata, si trova, per me in evidente, contraddizione col regime di dominio in cui siamo immersi. Probabilmente il lettore più attento avrà già presente come io abbia già potuto mostrare tale contrapposizione. Per lasciare qualche altro sassolino, per i Pollicini più intraprendenti, indico alcuni maestri che, sia pure in contrasto fra loro, mi hanno orientato in queste e nelle future argomentazioni. Oltre al già citato Michel Foucault, ritengo utile ricordare, Pierre Bourdieu, Luc Boltanski, Michel Crozier e John Wilfred Meyer.  

NOTE BIBLIOGRAFICHE RIASSUNTIVE

  • N. Abbagnano, Dizionario di Filosofia, UTET 1971.
  • G. Agamben “Che cos’è un dispositivo?”, Nottetempo, 2006.
  • A. Baccarin – P. V. Berardi, https://www.archeologiafilosofica.it/wp-content/uploads/2016/07/Che-cose%CC%80-un-dispositivo.pdf .
  • L. Bazzicalupo, https://www.academia.edu/32074909/Governmentality_Practices_and_Concepts .
  • P. Bourdieu, “Raison pratiques. Sur la thèorie de l’action”, Ĕdition du Seuil, Paris 1994.
  • L. Boltanski, “Della critica. Compendio di sociologia dell’emancipazione”, Rosenberg & Sellier, 2014.
  • R. Ciccarelli, “Riformulare la libertà politica, nell’analisi della governamentalità”, 2008.
  • M. Crozier, E. Friedberg, “Attore sociale e sistema. Sociologia dell’azione organizzata”, Etas, 1978.
  • M. Foucault, “Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977- 1978),” Feltrinelli, 2017.
  • M. Foucault, “Sorvegliare e punire”, Einaudi, 2014.
  • G. Giudici, https://gabriellagiudici.it/giorgio-agamben-che-cose-un-dispositivo/ .
  • H. Hasselbladh, E. Bejerot, “Webs of Knowledge and Circuits of Communication: Constructing Rationalized Agency in Swedish Health Care”, 2002.
  • J.W. Meyer, “World Society, Institutional Theories, and the Actor”, 2010.
  • W.W. Powel, P.J. Di Maggio “Il neoistituzionalismo nell’analisi organizzativa”, Ed. Comunità, 2000.
  • N. Rose, P. O’Malley, M. Valverde, “Governmentality”, 2009.
  • N. Rose, P. Miller, “Political power beyond the State: problematics of government”, 2010.
  • P. H. Thornton, W. Ocasio, “Institutional Logics”, 2008.

[1] Per un approfondimento sul concetto di campo V. “Raison pratiques. Sur la thèorie de l’action”, P. Bourdieu. Per un approfondimento sui campi organizzativi V. “Il neoistituzionalismo nell’analisi organizzativa”, W.W. Powel, P.J. Di Maggio.

[2] Da “organicismo, ossia facente parte di quella particolare dottrina filosofica, politica o sociologica che interpreti il mondo, la natura o la società in analogia ad un organismo vivente”, Nicola Abbagnano, Dizionario di Filosofia, UTET, 1971.

[3] Da “governamentalità” definita da Michel Foucault come “L’insieme di istituzioni, procedure, analisi e riflessioni, calcoli e tattiche che permettono di esercitare questa forma specifica e assai complessa di potere, che ha nella popolazione il bersaglio principale, nell’economia politica la forma privilegiata di sapere e nei dispositivi di sicurezza lo strumento tecnico essenziale. Secondo, per “governamentalità” intendo la tendenza, la linea di forza che, in tutto l’Occidente e da lungo tempo, continua ad affermare la preminenza di questo tipo di potere che chiamiamo “governo” su tutti gli altri – sovranità, disciplina –, col conseguente sviluppo, da un lato, di una serie di apparati specifici di governo, e, [dall’altro] di una serie di saperi. Infine, per “governamentalità” bisognerebbe intendere il processo, o piuttosto il risultato del processo, mediante il quale lo Stato di giustizia del Medioevo, divenuto Stato amministrativo nel corso del XV e XVI secolo, si è trovato gradualmente “governamentalizzato”, “Sicurezza territorio popolazione”, M. Foucault p. 88.

[4] In particolare gli esponenti dei cosiddetti Governamentaly studies. Tra i tanti è bene citare N. Rose, P. O’Malley, P. Miller e più recentemente H. Hasselbladh e E. Bejerot.

[5] V. in particolare: “World Society, Institutional Theories, and the Actor”, John W. Meyer.

[6] Definite come “i modelli socialmente costruiti di simboli e pratiche materiali, ipotesi, valori, credenze e regole con cui gli individui e le organizzazioni producono e riproducono la loro sussistenza materiale, organizzano il tempo e lo spazio e forniscono significato alla loro realtà sociale”, Thornton & Ocasio, 1999, p. 804.

[7] Non si può, a questo punto non citare il testo di riferimento più appropriato: “Sorvegliare e punire” di M. Foucault.

SPUNTI SU UNA RICERCA PSICOMETRICA SUL RISCHIO E LA SUA PERCEZIONE

 

La ricerca della quale voglio fare una recensione “Attaccamento e Percezione del Rischio” (https://www.researchgate.net/publication/327139585_Attaccamento_e_Percezione_del_Rischio), pur non affrontando la questione del cambiamento climatico ed i rischi epidemici con i quali oggi ci dobbiamo misurare, se pur pochi, a mio avviso, qualche aspetto interessante lo mostra.

Essa, è vero, non pone apertamente questioni relative al capitalismo, se questo sia un Moloch, con radici chissà in quale abisso terracqueo conficcate e  con una capacità di corrompere le capacità cognitive degli uomini, oppure un emendabile sistema socio economico che i diversi governi possono riformare al fine di contrastare i rischi ambientali planetari, o qualche cosa di altro. La ricerca, ha solo l’ambizione di dar conto della differente percezione individuale del rischio, della moltitudine di risposte ad informazioni concernenti rischi di vario genere, e pare che voglia proprio replicare alla tua amara considerazione sul fatto che “l’umanità non è attualmente consapevole della fine ad essa riservata…”.

Essa, una volta definito l’oggetto della ricerca seguendo un approccio psicometrico traduce in termini scientifici la diffusa convinzione che, a fronte di una scelta razionale, con la quale si dovrebbe vedere un pubblico pronto a darsi da fare per scongiurare pericoli, sapendoli posizionare su di una scala di gravità, vede comportamenti assai distanti da quanto ci si dovrebbe attendere. Il fatto che la tesi da loro proposta, veda emergere al fianco di fattori demografici, motivi di tipo psicologico, quali  “l’attaccamento”, che “lungo l’asse sicurezza/insicurezza, è in grado di modificare la percezione del rischio degli individui”, è, a mio avviso in linea con la prassi comunicativa proveniente dall’ambiente delle scienze ambientali (V. l’intervento di Giorgio Parisi del 9 novembre u.s. https://www.facebook.com/groups/OrmaGandalf/?ref=bookmarks) tutte dedite a prender le misure di un pubblico ancora piuttosto freddo nei confronti del cambiamento climatico (V. ad esempio quando dice “Mentre ci sono tanti sordi che non vogliono sentire, le nuove generazioni sono molto più interessate e sono un terreno estremamente fertile..). Perciò, a mio avviso, se si rimane su questo terreno il contributo dei ricercatori dovrebbe essere salutato come un utile contributo alla causa ambientale.

T…

 

 

 

 

REFERENDUM SI – REFERENDUM NO – REFERENDUM BOH – REFERENDUM PRRRRRR

Sono e resto assai dubbioso nell’affrontare la questione del cosiddetto “referendum confermativo” del 4 dicembre, soprattutto dopo un lungo periodo di silenzio di questo blog. Il dubbio “principale” è legato al fastidio che provo nell’ascoltare perentori schieramenti a favore delle uniche due soluzioni previste, come se dal 5 dicembre ci fosse la possibilità di vedere il drastico calo della temperatura planetaria, qualche bambino africano in più farsi una sana e robusta colazione, qualche ragazza indiana evitare stupri razziali o parentali, qualche giovane, non “fortunato” trovare un lavoro che sviluppi gli studi intrapresi ecc. In questo periodo ho la sensazione che le tre parole: “SI”, “NO” ed “epocale” si sprechino in ogni dove, soprattutto lungo gli spazi di discussione di vecchia e nuova socialità. In effetti, l’evento si presenta con tutti i caratteri della storicità, specialmente per la lunga digestione con cui ci siamo dovuti cimentare e per i significati che ognuno sta attribuendo alla propria presa di posizione. Uno dei più evidenti paradossi è che, pur essendo posto come la classica scelta razionale attribuita al libero cittadino decisore, la discussione stenta a chiarire l’oggetto effettivo della contesa, tanto che affiorano quotidianamente nuove e diverse motivazioni della preferenza.  Capita spesso, infatti, che i contendenti, ma non solo, mostrando conseguenze secondarie, discutano di questioni esterne alle alternative referendarie, aumentando la caoticità della questione (V. il dibattito Landini – Renzi di domenica 20 novembre). La lontananza di questo evento dal classico modello liberista, che vede un attore scegliere razionalmente tra alternative in base a proprie inclinazioni od interessi, è riconosciuta dagli stessi contendenti la disputa, non ci ha risparmiato l’adozione dell’eufemismo manipolatorio che scambia un (pleb)iscito ossia: ogni diretta manifestazione di volontà del popolo (plebe, nota mia)riguardo a questioni relative alla struttura dello stato o alla sovranità territoriale (http://www.treccani.it/vocabolario/plebiscito/ ), per un referendum, vale a dire: l’istituto giuridico per il quale, in senso lato, è consentita o richiesta al corpo elettorale una decisione su singole questioni; (http://www.treccani.it/vocabolario/referendum/ ) Ora, al di là di questioni giuridico[1]/terminologiche, balza abbastanza evidente che la presente mobilitazione nasca, si sviluppi e rischi, fortunatamente, di rimanere  all’interno del campo politico/amministrativo e l’astensione, pur mostrando innumerevoli facce, non fa che sottolineare  la lontananza del quesito referendario dalle esigenze e competenze degli individui coinvolti. Sento già arrivare le voci che, nel dopo voto scopriranno che nel quotidiano di ognuno non sarà cambiato nulla, tranne il tema che i vari mass media proporranno nelle maratone televisive.

Se i referendum abrogativi hanno mostrato che l’interpretazione della volontà popolare è propria di chi sa sfruttare posizioni di potere reale (V. ad esempio il referendum sull’aborto e quello sull’acqua), ma hanno favorito lo sviluppo di movimenti di liberazione e contestazione (V. quelli sul divorzio e sulle centrali nucleari), temi come quello odierno porteranno solamente uno sterile dibattito all’interno del mondo politico, proprio perché al contrario dei primi non nascono da mobilitazioni di movimenti sociali. L’azione di difesa della legge sull’aborto, per quanto si sia dovuta misurare, nel corso degli anni con le reazioni legate al potere reale dei medici ginecologi e a quello normativo della Chiesa Cattolica, è da ricondurre alla vitalità di un movimento femminista che ha saputo porre una con-vincente questione sulla sessualità femminile. La mobilitazione sulla conferma o l’abrogazione della riforma Renzi non potrà che fornire ai vari gruppi politici l’opportunità di cooptare qualche nuovo adepto e di ricompattare quelli storici e manterrà per qualche tempo ancora i riflettori accesi all’interno di un campo sempre più sterilmente autoreferenziale. L’estrema complessità delle questioni sollevate oltre a rendere assai pesante e ingarbugliati i dibattiti (in gran parte di quelli che ho potuto visionare gli interlocutori stentavano a mettersi d’accordo sul tema da affrontare), rendono assai difficilmente leggibili le dinamiche in atto e i significati ad esse attribuibili. Si potrebbe pensare che lo scontro veda da una parte i fautori di un processo di ulteriore accelerazione della globalizzazione che, riducendo il potere d’interdizione di gruppi di politici locali, favorisca la semplificazione, la velocità di esecuzione e soprattutto un maggior controllo sulle misure che il governo deve adottare per mantenersi in sintonia con decisioni prese altrove. Dall’altra parte sembra facile ritrovare coloro che, in nome della riproposizione di idealità nazionalistiche, si oppongono a questo disegno sia perché esclusi da quelle dinamiche, sia semplicemente perché non sono i protagonisti principali, sia per il timore di veder disperso quel ruolo di autorevole arbitro di questioni riguardanti le faccende umane e sia perché convinti di poter cavalcare l’onda di riflusso che, riproponendo temi identitario/nazionalistici, e/o rispolverando bandiere neocomunitaristiche (vessillo, non di formazioni politiche genericamente conservatrici, ma di gruppi fondati da esponenti dell’estrema destra armata europea, coinvolti nelle più efferate stragi compiute tra gli anni Sessanta e Ottanta http://www.umanitanova.org/2016/02/07/comunitarismo-neofascista/) consente facili successi elettorali di fronte ad un elettorato attonito ed atterrito dalle prospettive future. L’evidente semplificazione in cui sono incorso, pur sottolineando la considerevole complessità della questione, non mi consente facili previsioni sugli andamenti futuri, ma mi permette di prendere in considerazione l’ipotesi di una tendenziale polarizzazione delle posizioni politiche. In questa particolare situazione sembra che gli attori principali si stiano orientando in modo da intercettare il malcontento per lo smantellamento di quello che negli anni passati costituiva lo stato sociale sia la preoccupazione per i forti cambiamenti nel rapporto con il lavoro, da un lato e quella parte di elettorato più integrato nel processo di globalizzazione, più in linea con gli orientamenti cosmopoliti che hanno permesso alla Clinton di  vincere nei grandi centri urbani delle due coste americane, ma che l’hanno fatta perdere nel resto del paese e alle complessive elezioni presidenziali. Tutto ciò non è che un’ulteriore semplificazione, ma anche un’ipotesi di lavoro per approfondimenti successivi, ed è per me un buon motivo per rafforzare due mie convinzioni: molto più che appurare la veridicità di tesi contrapposte è interessante osservare i comportamenti  dei vari attori nelle controversie (http://www.medialab.sciences-po.fr/publications/Venturini-Introduzione_Cartografia_Controversie.pdf) e che questa in particolare, pur coinvolgendo milioni di persone in qualità di agenti mobilitati, e pur essendo foriera di pesanti conseguenze per tutti noi, rimarrà solo all’interno di quel campo sedicente “politico” verso il quale io non nutro simpatie tali da farmi coinvolgere in nessun modo.

 

 

 

 

 

[1] In questa competizione plebiscitaria un ruolo importante, ma non decisivo lo hanno svolto un numero cospicuo di giuristi che, sentendosi attori privilegiati, si sono schierati nei due campi avversi. Per un esame complessivo del ruolo di costoro un ottimo punto di partenza è l’articolo: “I giuristi, custodi dell’ipocrisia collettiva” di  Pierre Bourdieu ( V.  http://www.kainos.it/numero9/disvelamenti/giuristicustodi.html )

 

 

 

 

 

CITTADINI VIRTUOSI E NERI SCOREGGIONI

Non si può correttamente considerare come un discorso da parvenu, quello contenuto nell’ultima amaca di Michele Serra (V. La repubblica del 17 maggio 2015 https://triskel182.wordpress.com/2015/05/17/lamaca-del-17052015-michele-serra/ ), poiché è parte di una prassi abbastanza diffusa, anzi direi prevalente, di adesione ai cosiddetti valori dominanti.

pulizie milano

L’elogio, con richiesta di medaglia al valore, per la ripulitura dei muri imbrattati della Milano post manifestazione anti expo, non è l’atto di un nuovo arrivato nella scalata sociale, pronto a mettersi in mostra per ostentare un fortunoso arricchimento (probabilmente il soggetto in questione, pur non rivendicando maggiori emolumenti per se, dall’alto del suo superiore capitale culturale, giudica iniqua la sua remunerazione). Non è neanche la riflessione di un nuovo arrivato mentre si fa carico dei valori d’ordine delle vecchie classi borghesi (rappresentate da quell’odiatissimo Berlusconi e da quei triviali ricconi, pieni di soldi, ma moralmente e culturalmente inferiori rispetto ai suoi pari).

no expo

 

Esso è nello stesso tempo una riconferma della presa di distanza rispetto alla rumorosa scoreggia in pubblico fatta dai black bloc, espressione di gruppi sociali destinati alla sconfitta (con i quali il nostro non pensa di aver a che fare)  e la ripetizione ossessiva del vecchio disegno “sinistrorso”.  In esso sono previsti castigati contestatori criticare provvedimenti o pratiche del ceto politico e gli elzeviristi di professione pontificare giudicando questo o quell’aspetto della questione, il tutto finalizzato alla costituzione di una rappresentazione sociale della realtà capace di rafforzare il capitale simbolico della comunità dei gauchisti nostrani.

L’aspetto tragicomico dell’amaca in questione è che l’invito a prendersi cura gratuitamente delle cose della città in un contesto come quello dei postumi di una manifestazione, oltre a ricordare la cura per l’arredo del G8 di Genova che ossessionava, in quei lontani anni, i pensieri del Cavaliere, non tiene proprio conto di uno dei più comprensibili oggetti di contestazione di quella manifestazione. Il noto elzevirista de La Repubblica non ha minimente riflettuto sul fatto che la rabbia sociale per salari da fame si infiamma in modo esplosivo quando l’invito a prestazioni gratuite si fa sempre più pressante e sta diventando pratica sempre più diffusa ed opportunisticamente programmata. Queste sperticate lodi per il civile comportamento dei cittadini milanesi, contrapposto alla rozza e fracassona asocialità dei neri, trascurando la realtà di super sfruttamento oggi incombente e la protervia di chi non dissimula neanche un po’ le proprie posizioni nelle quali il potere si condisce con privilegi e ruberie più o meno legalizzate, sono senza dubbio parte di un discorso dominante. Questo discorso che pone i riflettori esclusivamente sulle differenze di comportamento agisce come tentativo, neanche tanto dissimulato di naturalizzare la differente “cultura” dei diversi attori e surrettiziamente di glorificare il lavoro “disinteressato” dei buoni cittadini. In questo modo viene definita la correttezza e virtuosità della prassi attesa e sanzionata come deleteria quella antagonista e soprattutto rafforzato il consenso intorno ad una realtà fortemente violenta, classista e dominata da ogni tipo di prevaricazione, ma che è assai prodiga di considerazione per chi, come il nostro amico (si fa per dire), difende con i denti del politicamente corretto il proprio capitale simbolico.

C’E’ ARTE E ARTE

Saviano, Travaglio ed la mafia capitale

Caro Orleo, ti ringrazio per aver segnalato la risposta di Travaglio all’articolo di Saviano, guarda caso due dei più ascoltati opinionisti

travagliosaviano

gabaneli

(manca solo la Gabanelli) dei fatti legati allevarie questioni chiamate: “mafia”, “corruzione”, “mala – politica”, ecc. Visto che i “politici” non godono di grande stima, sembra del tutto scontato che siano i giornalisti di “nera” e “giudiziaria” gli unici in grado di offrire spunti di

 

http://www.repubblica.it/esteri/2014/12/06/news/messico-102306740/?ref=HREC1-5

 

riflessione su fatti indubbiamente importanti. Ė ovvio che la loro posizione professionale, in un contesto turbolento come quello degli ultimi tempi li avvantaggi in quanto a tempestività degli interventi ed alla ricchezza dei particolari (Travaglio, ad esempio, mostra incontrovertibili capacità di memorizzazione di fatti criminosi e di conoscenza dei protagonisti, anche tra i più marginali), ma mi

 

http://www.repubblica.it/esteri/2014/12/06/news/usa_violenze_polizia_terza_serata_di_proteste_die-in_nel_cubo_della_apple-102234043/?ref=HREC1-24

 

sembra che rispetto a qualche anno fa (non parliamo solo dei famosi anni ’60 – ’70) la delega che abbiamo dato a costoro sia troppo ampia. Non discuto del loro lavoro e della loro competenza giudiziaria ma, osservando il contenuto dei loro elaborati, scorgo, soprattutto in quello di Saviano, una povertà d’analisi che corrobora il tono da loro adottato. Saranno artifici retorici, ma sia lo sgomento per

 

http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/atene-e-salonicco-disordini-durante-manifestazioni-in-memoria-dello-studente-ucciso-6-anni-fa-dalla-polizia-39a075f5-f06b-447d-a5c1-eb9cdebf27ac.html

 

una politica corrotta ed affarista, che il cinismo volto ad evidenziare l’efferata malignità dei politici italici potrebbero essere interpretate come richieste d’aiuto lanciate da naufraghi timorosi per le sorti del belpaese,ma soprattutto per quelle relative alle loro convinzioni. Continuare ad impiegare approcci manichei mediante i quali si contrappongono cristallini sistemi politici dei paesi più civili

http://www.icij.org/project/luxembourg-leaks/explore-documents-luxembourg-leaks-database

ai fetori di quelli di casa nostra, oltre a mostrare un linguaggio assai datato e zeppo di termini dal dubbio significato (V.  http://www.informarexresistere.fr/2014/12/02/noam-chomsky-non-ha-piu-importanza-chi-detiene-il-potere-politico-tanto-non-sono-piu-loro-a-decidere/ ), sottolineano l’assenza di un’ottica che tenga conto degli effetti della globalizzazione e degli attuali modelli organizzativi di quello  che un tempo si chiamava “capitale”, ma che si può ancora chiamare “sistema di dominio”.

Rendiamo merito alle abilità di questi giornalisti, ma aiutiamoli ad uscire dalle secche in cui sono e siamo finiti.

CRIOCONSERVAZIONE E MATRIARCATO

Sono tre mattine che ho la possibilità di ascoltare: “PAGINA 3”, programma radiofonico di Rai 3, che approfondisce le pagine culturali dei quotidiani. L’evidente felice conduzione di Vittorio Giacopini ha messo brillantemente in relazione due fatti, che pur essendo assai distanti fra loro (uno negli USA, l’altro dalle nostre parti ) e pur non avendo nulla che li possa mettere operativamente in relazione, riguardano le donne, le relazioni sociali in cui sono coinvolte e soprattutto due modi assai diversi con cui viene posta l’emancipazione femminista.

donne moso

Il congiunto annuncio della Apple e di Facebook di finanziare la “crioconservazione” degli ovuli femminili (“10mila dollari per trattamento, più 500 dollari l’anno per la conservazione”, http://www.wired.it/scienza/2014/10/15/facebook-apple-congelamento-ovuli/), potrebbe essere accolto come una conquista, secondo un approccio universalista[1] del femminismo, sulla via della parità tra i sessi. Ė assai probabile che un impegno finanziario di questa portata sia il frutto dell’affermazione di questo modo, sempre più forte ed istituzionalizzato di affrontare la questione femminile. Le dipendenti di questi due colossi della New Economy avranno la possibilità di evitare passi falsi nella loro carriera, posponendo in epoche meno turbolente la maternità. Una grande conquista, non c’è che dire, la possibilità che il futuro CEO di quelle aziende sia una donna sono aumentate, ma l’evidenza della violenza simbolica che perpetua la sottomissione del genere femminile è lampante. Tuttavia è a mio avviso scorretto, secondo il classico ed inconcludente riduzionismo economicista, pensare che la decisione sia stata presa con la bieca astuzia di aziende totalmente dedite al profitto; l’ottica universalista fa ormai parte del pensiero dominante e le aziende protagoniste sono l’avanguardia del capitale globale.

Il giorno precedente il conduttore di pagina3  aveva dato conto di un’intervista del Manifesto con la filo­sofa tede­sca Heide Goettner-Abendroth che ha presentato il suo libro: Le società matriar­cali. Studi sulle cul­ture indi­gene del mondo (Vene­xia, pp. 712 ). In questo testo nel quale la studiosa, andando, a mio avviso anche oltre l’ottica differenzialista[2], e descrivendo alcune società matriarcali (gli Iro­chesi del Nord Ame­rica, i Minan­g­ka­bau di Suma­tra ( Indo­ne­sia ), e i Moso della Cina occi­den­tale[3]), sottolinea il fatto che queste, non sono luoghi con donne “con i pantaloni”, un “rove­scia­mento del patriar­cato, come il solito errore d’interpretazione pre­ve­drebbe. Sono basate su valori materni come il pren­dersi cura, il nutri­mento, la cen­tra­lità del materno, la pace attra­verso la media­zione e la non vio­lenza; sono valori che val­gono per tutti: per chi è madre e per chi non lo è, per le donne e per gli uomini” http://ilmanifesto.info/laltro-mondo-del-matriarcato/. Questa descrizione, non è giustificata da un lettura volta a rimarcare l’affermazione di un eterno femminino, ma dall’assenza, in quegli spazi sociali, di forme di dominio sessuato che caratterizza le “moderne società capitaliste”. Il fatto che da quella descrizione siano emerse pratiche quali la non violenza, la cura della biosfera, l’economia del dono e di sus­si­stenza locale e regio­nale ci rammenta che senza la decostruzione di rapporti di dominio fra uomini e fra uomini e donne esse sono difficilmente conseguibili.

[1] “Il femminismo cosiddetto universalista, in quanto ignora l’effetto di dominio, e tutto ciò che l’apparente universalità del dominante deve al suo rapporto con il dominato – qui tutto ciò che ha a che fare con la virilità – inscrive nella definizione universale dell’essere umano, proprietà storiche dell’uomo virile, costruito in opposizione alle donne.”. (“La dominazione maschile”, Pierre Bourdieu, Feltrinelli, Milano, 1998, pag. 76.

[2] “La visione differenzialista dimentica che la “differenza” appare solo quando si accetta di guardare il dominato dal punto di vista del dominante e quando proprio ciò da cui essa si adopera a differenziarsi… (“La dominazione maschile”, Pierre Bourdieu, Feltrinelli, Milano, 1998, pag. 77.

[3] Per una prima conoscenza dei Moso: http://serenoregis.org/2012/04/05/la-societa-matrilineare-delletnia-moso-nel-paese-a-sud-delle-nuvole-isabella-bresci/

A PROPOSITO DELL’ARTICOLO 18

GRANDI OPERE E TEATRO POLITICO

MOSEAnche con le grandi opere sembra che stia avvenendo quello che succede nella nazionale di calcio. Il tutti contro tutti, fra gli esperti in attesa di qualche mamma-santissima (Berlusconi, Renzi, ….) che li metta in riga. Nel frattempo si assiste ad un cazzeggio di dubbio gusto in cui ora prevalgono parole d’ordine come: indipendenza, lotta agli sprechi ed alla corruzione, bene comune, ora altri obiettivi: occupazione, flessibilità, competitività e globalizzazione. Gli attori sono sempre gli stessi: i detentori, gli amministratori, i custodi del capitale (economico, sociale, culturale e simbolico), il campo od il palcoscenico è sempre all’interno di quella sfera del politico che monopolizza la violenza fisica (TAV, Genova, Civitavecchia ecc.) e simbolica (la cultura occidentale, l’opinione pubblica, totalizzanti identità collettive ecc.). In platea non rimane altro che una folla opacizzata da riflettori gestiti dai precedenti e messa li a confermare la superiorità del sistema, attraverso scomposti vagiti famelici, tutti tesi a tranquillizzare i manovratori. Last but not least: il mito, la terra promessa. Come in tutte le discussioni più scontate sia su frivoli drammi da Tuttosport, che in millenaristiche autoflagellazioni per gravi peccati “sociali” emerge il tema dei temi: la mentalità, la tara culturale, l’idiosincrasia per la legalità degli italiani. Basta varcare qualunque confine per trovare capitalismi dal volto umano, Report continua a ricordarcelo. L’epilogo sul proscenio è scontato, vediamo se alle prossime elezioni passiamo dal 3,9% al 4%, se qualche esperto viene cooptato in qualche posizione ragguardevole e se a quei petulanti affamati possiamo passare qualche osso da rosicchiare in attesa del prossimo articolo del “Fatto” (Un tempo “il fatto” era uno dedito a pratiche malsane).

SETTIS, I PASCOLI ED IL BENE COMUNE

 

barberis 1

 

 

C’era da aspettarselo, ora che il tema dei beni comuni si è dovuto misurare con l’agenda politica dettata da chi sa controllare la cosiddetta “opinione pubblica”, il prevedibile rischio di confondere tale questione con quella classica del bene comune si sta manifestando, sia pure in ambienti ed in situazioni molto ristretti. È abbastanza scontato che qui e là, durante la campagna elettorale, ci sia più d’uno che, con fare serioso, affermi che la sua iniziativa e quella del suo gruppo è volta alla tutela del superiore BENE COMUNE. Ci mancherebbe altro, dopo tutto siamo in un regime repubblicano e notoriamente le istituzioni politiche sono investite da questo preminente scopo. A noi il bene, il male ai malfattori direbbeJacques II de Chabannes signore di La Palice.

Cercando di essere il più sintetico possibile, mi avventuro in una discussione su questo tema, poiché lo devo al mio amico Giovanni Gottardo. Questi, alcuni giorni fa ha postato su FB un documento recensione di  Salvatore Settis che mi ha portato asollevare alcuni dubbi su quelle affermazioni, ma, essendo io una pulce rispetto al molosso che devo aggredire, mi sono preso un po’ di tempo prima di completare la mia critica.

Come dice l’autore (d’ora in poi l’a.) della recensione e quindi dello scritto che mi accingo a criticare, il tema dei beni comuni sta godendo, da qualche anno, di un rinnovato interesse. Il premio Nobel per l’economia conferito ad Elinor Ostrom insieme ad Oliver Williamson a seguito degli studi sulla governance e sui limiti delle imprese (il secondo) ed i beni comuni (la prima) ha dato un respiro internazionale e di alto profilo accademico ad alcune lotte che, come quella contro la privatizzazione dell’acqua, hanno squarciato le nebbie di questo lungo periodo di “pace sociale”. Il libro di Paolo Maddalena “Il territorio bene comune degli italiani” (Donzelli) e la recensione di  Salvatore Settis  sono tra gli ultimi esempi di un’attenzione che il mondo accademico dedica a tale tema, pur dovendosi confrontare con una dinamica politica poco propensa ad accettare riflessioni pacate e ben meditate. Il renzismo (uso questa espressione, anche se nonostante la recente vittoria siamo ai primi vagiti di questa nuova epoca) sembra che abbia come connotato principale: l’approssimazione comunicativa, collegata alla velocità decisionale, da mostrare e spettacolarizzare nei confronti di un pubblico sempre più attonito e confuso. Quest’ultima parola mi consente di riportare la barra del discorso sul tema che intendo affrontare e di mettere subito da parte l’obiezione più immediata che si potrebbe lanciare contro lo scritto dell’autorevole recensore: a mio avviso egli non sovrappone i concetti di “beni comuni” e di “bene comune” per una banale confusione legata ad aspetti lessicali, egli lo fa perché convinto che il secondo sia il compimento e la maturazione del primo.

Visto che mi è richiesta, procedo con chiarezza.

Per ribadire che i due termini fanno riferimento a due questioni assai distanti, potrei limitarmi nel citare autori di diversa estrazione come Guido Viale, Giovanna Ricoveri, Carlo Donolo ed Enrico Grazzini. ma vista l’ipotesi esplicativa che ho in serbo, per dar conto di questo apparente equivoco, ritengo utile richiamare brevissimamente i due concetti sottostanti.

  1. I BENI COMUNI o COMMONS (d’ora in poi bc) “sono riemersi dalla notte dei tempi, dopo due – tre secoli di ostracismo praticato dai governi di tutto il mondo per cancellarli, perché considerati un retaggio del passato che ostacola la “modernizzazione” dell’economia e della società.” (http://www.ecologiapolitica.org/wordpress/wp-content/uploads/2013/07/Approfondimenti.-Elinor-Ostrom-e-i-beni-comuni.pdf).  Sarà per questa troppo recente riscoperta o per altri motivi, ma sembra ancora distante un’unanime definizione su cosa s’intenda per bc e che cosa essi includano. Forzando un po’ le cose potremmo dire che per gli economisti e per Elinor Ostrom, in testa “i commons sono risorse materiali o immateriali condivise, ovvero risorse che tendono ad essere non esclusive e non rivali (un bene è “rivale” quando l’uso da parte di un soggetto impedisce l’uso da parte di un altro soggetto), e che quindi sono fruite (o prodotte) tendenzialmente da comunità più o meno ampie.”. (Grazzini   http://temi.repubblica.it/micromega-online/beni-comuni-e-diritti-di-proprieta-per-una-critica-della-concezione-giuridica/). Al contrario per alcuni giuristi italiani, come Stefano Rodotà, l’autorevole giurista che tra i primi ha introdotto il tema dei bc,  essi, pur rischiando di veder confinato il tema ai soli beni “open -access” [1]ed a quelli di merito [2], fanno riferimento ad un numero consistente, ma limitato di beni. Questi, potenzialmente anche immateriali, ma concretamente fruibili da soggetti individuali e collettivi comportano per lo stato misure di specifica tutela, poiché essendo “quelli funzionali all’esercizio di diritti fondamentali e al libero sviluppo della personalità… devono essere salvaguardati sottraendoli alla logica distruttiva del breve periodo, proiettando la loro tutela nel mondo più lontano, abitato dalle generazioni future.”. http://www.teatrovalleoccupato.it/il-valore-dei-beni-comuni-di-stefano-rodota  In ogni caso, a conferma della necessità di chiarezza lo stesso Rodotà si schiera contro tendenze pronte a scorgere bc ovunque. «Se la categoria dei beni comuni rimane nebulosa, e in essa si include tutto e il contrario di tutto, se ad essa viene affidata una sorte di palingenesi sociale, allora può ben accadere che perda la capacità d’individuare proprio le situazioni nelle quali la qualità comune di un bene può sprigionare tutta la sua forza» (Rodotà, il manifesto, 12 aprile 2012).  Oltre a questi due autorevoli approcci ne suggerirei un terzo, che, puntando a situare socio – storicamente la questione, riporta l’identificazione degli stessi ai casi concreti ed evita di trascurare l’aspetto culturale e relazionale dei bc stessi, tanto da farli associare a delle relazioni sociali”. Questi “ in questo caso sono socialmente costruiti e non un dato precostituito. Potremmo dire che l’appellativo di comune non è insito alla natura del bene bensì è determinato dai rapporti sociali che lo generano” http://selfcity.tumblr.com/post/11396772658/pratiche-sociali-e-beni-comuni. La questione dei bc in tal caso “si manifesta in forme differenti nei diversi tipi di comunità e le differenti definizioni offerte riflettono le diverse forme sociali in cui s’inquadra il dibattito” (Douglas M. (1994), Credere e pensare, Il Mulino)
  2. IL BENE COMUNE [3](d’ora in poi BC) è tutt’altra cosa: esso “rinvia a una concezione armonica e unitaria della società, dei suoi fini ultimi, dei suoi interessi, della convivenza.” http://www.inchiestaonline.it/economia/guido-viale-i-beni-comuni-non-sono-il-bene-comune/. Rappresentando lo spazio sociale come un organo, i sostenitori del BC sostengono che “il fine della società politica, e quindi di chi la governa, deve essere il bene comunehttp://www.redalyc.org/pdf/927/92720204.pdf, anzi “ne è anche il principio costitutivo.”.  (Vittorio Possenti http://www.fidae.it/AreaLibera/AreeTematiche/Progetto%20Culturale/Vittorio%20Possenti,%20La%20questione%20del%20bene%20comune.pdf).                                                                        “La concezione organicistica del mondo consiste nell’immaginare la società sul modello di un corpo vivente, in cui il bene del tutto viene prima di quello delle parti che lo compongono, che non sarebbero neanche concepibili separatamente da questo (come una mano distaccata dal corpo). http://www.treccani.it/enciclopedia/comunitarismo_(Enciclopedia-delle-scienze-sociali)/ Sorvolando sulle origini classiche di tale filosofia, la sua riproposizione viene accolta come antidoto al trionfante neoliberismo, soprattutto alla versione contrattualista.  Alcune di queste tesi, rovesciando il pensiero di Tonnies che vedeva la Società prevalere sulla Comunità propongono il passaggio inverso da una logica meccanicistica, tipica della Società borghese, ad un punto di vista organico caratteristico delle Comunità. Con quest’approccio “la parte (il cittadino) esiste in vista del tutto (lo Stato) ed il tutto in vista delle parti, tale comunità possiede un «bene comune» che rappresenta, contemporaneamente, l’interesse del singolo membro e della comunità nel suo complesso. In secondo luogo, le relazioni tra i membri della comunità sono viste come organiche e, quindi, inscindibili: nel momento in cui si pretenda, con un atto di forza, di spezzare il legame che unisce i membri della comunità, si destina la comunità stessa alla morte.”. ( Adele Patriarchi, http://www.dialetticaefilosofia.it/public/pdf/17annali%202006.pdf). Ovviamente numerose sono le correnti che si rifanno a questo tipo di orientamento e, nonostante le origini conservatrici, oggi molti esponenti della sinistra rielaborano il tema del BC tanto da suggerire interrogativi sulla sua collocazione politica. A questo riguardo è bene precisare che la visione egualitarista della sinistra, nel momento in cui si coniuga con l’accezione organicista assume i caratteri di un atteggiamento paternalistico[4]. So benissimo che parole d’ordine come “partecipazione, condivisione, solidarietà” fanno parte del lessico adoperato da questi esponenti della sinistra, e che tali espressioni collocano il tutto un’ottica democratica, ma la cornice d’azione avviene dando per scontato che il “bene comune è il fondamento e l’unica giustificazione dell’autorità” Vittorio Possenti http://www.fidae.it/AreaLibera/AreeTematiche/Progetto%20Culturale/Vittorio%20Possenti,%20La%20questione%20del%20bene%20comune.pdf). Pertanto “La non-evidenza del bene comune, il fatto che esso sia sempre soggetto ad un velo d’ignoranza sono i motivi che postulano la necessità dell’autorità politica; il suo compito consiste nell’assicurare l’unità di azione del corpo politico, al cui interno generalmenteesistono molteplici opinioni sugli scopi e le azioni da intraprendere. ” (idem)

Chiariti i termini e conseguentemente la distanza tra delle due accezioni dell’espressione “bene comune”, si può ora passare all’analisi del testo di Salvatore Settis. In esso sia con uno sguardo puntuale e sia con una banale analisi complessiva si può riscontrare la sovrapposizione delle due accezioni. Quando l’a. dice “attraverso l’universo dei beni comuni, la nuova dimensione di una cittadinanza consapevole dei propri diritti sovrani: primo passo per intendere come, perché e da chi essi sono calpestati, e per organizzare una riscossa” (Settis, http://temi.repubblica.it/micromega-online/una-repubblica-fondata-sul-bene-comune/) o quando scrive “L’argomentazione sul territorio come bene comune degli italiani, che Maddalena ci offre in questo libro, è un contributo, appassionato e rigoroso, a quella discussione sui beni comuni che va oggi dilagando, ma non sempre con piena consapevolezza delle categorie giuridiche adoperate né del loro spessore storico né, infine, del loro concreto potenziale politico e civile” ( Idem) si riferisce, sia pure con tesi discutibili, alla questione dei commons (bc). Quando invece sostiene “Ma il bene comune è oggi sempre più spesso accantonato come un ferrovecchio, e in nome delle logiche di mercato cresce ogni giorno l’erosione dei diritti, si consolida la struttura autoritaria dei governi, la loro funzione ancillare rispetto ai centri del potere finanziario e bancario, «stanze dei bottoni» totalmente al di fuori di ogni meccanismo democratico di selezione, al riparo da ogni controllo, al di sopra d’ogni regola, di ogni legalità, di ogni sanzione ( Idem)  (o quando ricorda che “il potere di agire contro le istituzioni in nome del bene comune, contro le mutevoli leggi in nome di uno stabile Diritto intessuto di profondi legami sociali e di alti principi etici”, ( Idem) si riferisce a quel BC fondante della “Costituzione della Repubblica. In essa troviamo il coerente manifesto di uno Stato fondato sul bene comune e non sul profitto dei pochi”. ( Idem)

Che Salvatore Settis abbia sposato la causa del BC lo si può veder chiaro leggendo il suo fortunato “S. Settis Azione popolare” (ed. Einaudi, 2012). Per lui “Il bene comune come finalità imprescindibile delle comunità umane è la spina dorsale di una cultura della cittadinanza di cui dobbiamo in ogni modo recuperare la traccia e il bandolo.”. (Idem, pag 57) e visto che, sempre secondo lui lo Stato “È, prima di tutta, una comunitàLo Stato siamo noi: perciò dobbiamo saper imporre a chi ci governa il pieno rispetto della legalità, e dunque anche fermare il saccheggio dei beni comuni e dei beni pubblici, anzi indirizzarne l’uso, secondo Costituzione, sulla loro utilità sociale.”.  (Idem, pag. 113).

Ora se si guarda alle domande interessanti che l’A. si fa quando dice: “Se, al contrario, sapremo affermare la piena continuità fra beni pubblici e beni comuni, allora potremo porre sul tappeto altre e più interessanti domande. Questi beni, in quanto appartenenti alla comunità di cittadini, cioè al popolo, possono rivestire più complesse funzioni, di natura economica ma anche etica e civile, in relazione al pubblico interesse, alla comunità nazionale, alle istituzioni della Repubblica? Possono contribuire a strutturare una cittadinanza consapevole della superiorità del bene comune sugli interessi di ognuno, convinta dei legami e degli obblighi di solidarietà fra cittadini? (Idem, pag 118) si può fare una altrettanto interessante ipotesi sul perché lo stesso abbia sovrapposto le due accezioni del bene comune. Per lui i bc sono solo dei beni che appartengono, unitamente ai beni pubblici, alla comunità dei cittadini, la quale s’identifica con lo stato. Questa entità designata dalle nozioni di: Popolo, Nazione e Patria, e che si esprime attraverso lo stato nazionale, oggi vittima di un logoramento dovuto al convergere della caduta di professionalità del personale politico ed alla cessione di sovranità verso istituzioni locali e sovranazionali e soprattutto verso il mercato globale, trova nel “complesso dei beni pubblici, dei beni comuni e dei beni culturali, paesaggistici e ambientali come beni essenziali all’esercizio dei diritti pubblici (Ivi, pag 138) la garanzia funzionale all’ottenimento del bene comune. In questo modo cade ogni riferimento alle tesi sull’efficacia della capacità autorganizzativa di gruppi sociali rispetto ai commons, proposto dalla Ostrom e viene rafforzata la concezione organicista della realtà sociale, con la conseguente derubricazione dei conflitti ad anomalie connesse a cattive scelte politiche, delle élites dirigenti. I conflitti, in particolare secondo l’ottica del nostro, sono frutto, proprio come per i corpi, di azioni provenienti dall’esterno: dall’economia capitalistica “L’onnipotenza del mercato sottomette lo Stato e ne fa il proprio strumento di dominio, infrangendo l’identità fra Stato e comunità dei cittadini, che sarebbe propria della democrazia.”. (Idem, pag. 120-121)  o dall’impreparazione dei politici nostrani  “A nessun politico, senza eccezioni, interessa il patrimonio artistico” (S. Settis, http://www.ilgiornaledellarte.com/articoli/2012/10/114543.html). Per lui la possibilità che questa presunta comunità,  rappresentata dallo stato repubblicano sia, in realtà, un campo dominato da gruppi sociali che hanno costituito e costituiscono il medesimo ed attraverso il monopolio della violenza fisica e di quella simbolica, non è per nulla da prendere in considerazione. Anzi, senza alcuna preoccupazione, egli innalza la bandiera nazionale: “Ma l’orizzonte specificamente nazionale, italiano, è assolutamente essenziale, se professiamo un’etica della legalità. Se crediamo che la Repubblica, e proprio per aver voce nel concerto delle nazioni, debba cominciare col rispettare la propria memoria storica, la propria identità, la propria Carta fondamentale, i propri cittadini. Se, insomma, siamo convinti che l’Italia esista ancora.” (S. Settis, “Azione popolare”, pag 123).  In questo modo egli dimentica ad esempio che in nome della difesa dei supremi interessi nazionali (ed in barba ai beni comuni o collettivi ) abbiamo il Mar Adriatico ed il Tirreno pieni di bombe pericolose (http://sulatestagiannilannes.blogspot.it/2014/02/adriatico-e-tirreno-due-cimiteri-di.html) e soprattutto trascura il fatto che dietro queste bandiere si stanno nascondendo pericolosi atteggiamenti xenofobi e razzisti e costituendo una cultura più orientata alla dipendenza che alla responsabile cura dei beni comuni. Rilanciare tematiche nazionaliste, identitarie e, per certi versi, populiste è, a mio avviso, un tentativo disperato di rianimare una rappresentazione di uno stato  capace di governare la complessità sociale, rappresentazione che, pur spingendosi oltre la vecchia idea unitaria ripropone la più che matura dottrina di una comunità che si fa soggetto e che agisce su se stessa al fine di dar vita ad una società giusta  “la forza dello Stato comunità, che è una forza che si esprime, sì attraverso Autorità liberamente elette, ma che ha il suo fondamento essenzialmente nel consenso popolare, nel consenso della generalità dei cittadini.” (http://www.amcorteconti.it/maddalena_etica.htm)

 

 

 

 

 

[1] Quelli che:  come il mare aperto, i fiumi, i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l’aria, i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate (catalogo dei beni comuni redatto dalla commissione Rodotà del 2008.

[2] Beni la cui produzione genera sistematicamente esternalità  positive, o ritenute tali dalla collettività e …. il bilanciamento tra sfruttamento di una risorsa naturale a vantaggio dei residenti attuali e conservazione della stessa per le future generazioni http://eprints.biblio.unitn.it/1280/1/WP22_Carlo_Borzaga.pdf),

[3] Per diverse ragioni, principalmente per motivi di chiarezza e di concisione, qui non metto in discussione il concetto di bene comune. Do per scontato che uno strumento come questo, oltre ad essere inutile in un qualsiasi ragionamento, vista la sua arbitrarietà, è assai pericoloso e mi rammenta oggetti come il manganello e l’olio di ricino  indispensabili per la sua difesa.

[4]  Paternalismo. Propensione del settore pubblico ad influenzare i comportamenti dei singoli individui promuovendo scelte migliori di quelle che essi sarebbero in grado di operare autonomamente…La pubblica amministrazione può tuttavia riconoscere l’esistenza di valori da tutelare (come il rispetto per l’ambiente), ovvero affermare la necessità di promuovere comportamenti virtuosi (per es. quelli che preservano l’integrità e la salute) o l’esigenza di proibire comportamenti dannosi (per es. l’utilizzo di sostanze stupefacenti). In tali casi lo Stato, le Regioni o i Comuni possono interferire nelle scelte dei singoli membri della società, limitando di conseguenza la loro sovranità… Il p., come vera e propria scienza volta a orientare le scelte dei cittadini, individuando modalità per sostenere e sollecitare le condotte migliori, è stato oggetto di una pubblicazione di R.H. Thaler e C.R. Sustein (Nudge: improving decisions about health, wealth and happiness, 2009). In essa, gli autori (collaboratori rispettivamente del primo ministro britannico D. Cameron e del presidente degli Stati Uniti B. Obama) hanno sottolineato come la promozione dei comportamenti virtuosi si basi principalmente sulla diffusione della consapevolezza dei singoli nell’effettuare le scelte migliori, generando così nuovi canali di comunicazione fra Stato e cittadini. Questo nuovo orientamento per la promozione delle best practice (➔ migliore pratica, tecnica della) e i nuovi metodi di policy-making degli Stati impongono tuttavia una riflessione sui potenziali risvolti negativi derivanti da un ampio condizionamento delle scelte individuali che travalichi il perseguimento del bene comune. http://www.treccani.it/enciclopedia/paternalismo_(Dizionario-di-Economia-e-Finanza)/